lunedì 6 agosto 2012
giovedì 14 giugno 2012
Ancora Nigel Farage sul salvataggio delle banche spagnole "I Geni del reciproco indebitamento"
Qui il link all'intervento completo senza sottotitoli http://www.youtube.com/watch?v=TN_1mF-3JTI&feature=player_embedded
e la trascrizione
Transcript:
"Another one bites the dust. Country number four, Spain, gets bailed out and we all of course know that it won't be the last. Though I wondered over the weekend whether perhaps I was missing something, because when the Spanish prime minister Mr Rajoy got up, he said that this bailout shows what a success the eurozone has been.
And I thought, well, having listened to him over the previous couple of weeks telling us that there would not be a bailout, I got the feeling after all his twists and turns he's just about the most incompetent leader in the whole of Europe, and that's saying something, because there is pretty stiff competition.
Indeed, every single prediction of yours, Mr Barroso, has been wrong, and dear old Herman Van Rompuy, well he's done a runner hasn't he. Because the last time he was here, he told us we had turned the corner, that the euro crisis was over and he hasn't bothered to come back and see us.
I remember being here ten years ago, hearing the launch of the Lisbon Agenda. We were told that with the euro, by 2010 we would have full employment and indeed that Europe would be the competitive and dynamic powerhouse of the world. By any objective criteria the Euro has failed, and in fact there is a looming, impending disaster.
You know, this deal makes things worse not better. A hundred billion [euro] is put up for the Spanish banking system, and 20 per cent of that money has to come from Italy. And under the deal the Italians have to lend to the Spanish banks at 3 per cent but to get that money they have to borrow on the markets at 7 per cent. It's genius isn't it. It really is brilliant.
So what we are doing with this package is we are actually driving countries like Italy towards needing to be bailed out themselves.
In addition to that, we put a further 10 per cent on Spanish national debt and I tell you, any banking analyst will tell you, 100 billion does not solve the Spanish banking problem, it would need to be more like 400 billion.
And with Greece teetering on the edge of Euro withdrawal, the real elephant in the room is that once Greece leaves, the ECB, the European Central Bank is bust. It's gone.
It has 444 billion euros worth of exposure to the bailed-out countries and to rectify that you'll need to have a cash call from Ireland, Spain, Portugal, Greece and Italy. You couldn't make it up could you! It is total and utter failure. This ship, the euro Titanic has now hit the iceberg and sadly there simply aren't enough life boats."
martedì 12 giugno 2012
lunedì 11 giugno 2012
Perché gli Economisti Sbagliano
Perché gli Economisti Sbagliano: di Roberto Gorini
'via Blog this'
Oggi gli economisti governano il mondo. Sono a capo delle Banche Centrali, e sempre più sono a capo anche delle istituzioni pubbliche e dei governi, come in Italia. La crisi economica è oggi il principale problema, e quindi è naturale che siano chiamati gli “esperti” a risolverla, ma è interessante scoprire che in realtà è proprio colpa loro e dei loro inefficaci modelli matematici se oggi ci troviamo in queste condizioni.
L’Economia è la scienza più inesatta che ci sia, e forse non molti sanno che non tutti gli economisti la pensano allo stesso modo, anzi alcuni sono a poli diametralmente opposti. Ecco perché in campo economico si sente dire tutto e il contrario di tutto e le ricette si faticano a trovare. Ecco il perché.
La maggior parte degli economisti, quelli per intenderci che siedono nelle aule del potere, trattano l’Economia come una scienza naturale, al pari della fisica e della chimica, ed elaborano tutta una serie di complicati modelli matematici per prevedere il futuro economico. Niente di più sbagliato, l’Economia deve essere trattata come una scienza umana che si occupa dell’uomo e della sua vita sociale. La differenza è abissale, perché da un lato si cerca di prevedere il comportamento economico dell’uomo come se l’uomo fosse un robot, che agli stessi stimoli risponde sempre allo stesso modo, dall’altro si studia l’uomo come soggetto creativo unico e irripetibile che coopera con gli altri per raggiungere i propri fini.
Da un lato quindi ci sono modelli matematici da applicare e dall’altra lo studio del metodo con il quale l’uomo opera per realizzare i suoi fini. La differenza è tra costruire a tavolino una città ideale in base a calcoli ingegneristici e invece agevolare lo sviluppo spontaneo di un aggregato urbano: il quartiere Zen di Palermo contro il centro di Lucca. E’ come voler inventare una lingua nuove sulla base di conoscenze scientifiche e invece lasciar nascere spontaneamente un metodo per comunicare: l”Esperanto contro l’Inglese. Queste sono le grandi differenze tra gli economisti “mainstream”, e quelli all’opposizione. Io ovviamente parteggio per la seconda fazione, ahimè minoritaria, ma visti i risultati della prima in grande crescita !
Gli economisti al potere, o consulenti del potere, non hanno previsto la crisi, e questo è un dato di fatto, mentre “gli altri” avevano ampiamente previsto l’imminente sfascio della nostra fittizia economia, e per questo sono anche stati tacciati di catastrofismo, ma perché ? I primi sostengono che è difficile prevedere l’andamento economico perché l’uomo è irrazionale. No ! L’uomo è imprevedibile, non irrazionale e i modelli matematici utilizzati per prevedere il futuro economico non sono sbagliati, sono semplicemente inadatti. Sono utilizzabili per calcolare la portanza di un edificio, il volo di un aereo o l’interesse di un mutuo calcolato con il metodo francese, ma non per stabilire l’attività umana.
Un esempio per comprendere quale sia l’errore di base nel quale si è caduti è quello del PIL, il Prodotto Interno Lordo. E’ un dato che non ci dice assolutamente nulla, eppure è considerato uno dei più importanti. E’ il volume globale delle attività economiche di un dato paese, ma non ci dice se le persone vivono meglio, sono più in salute e se in definitiva sono più felici. Il PIL può crescere perché si va in guerra, o perché si costruiscono case in cui nessuno andrà ad abitare (come in Cina oggi) o perché le persone spendono sempre di più per curarsi perché sono ammalate. I numeri non possono rappresentare lo condizione dell’essere umano!
Molto meglio l’approccio metodologico, quello alternativo, che studia gli elementi che l’uomo utilizza per cooperare, e il denaro, per esempio, è uno dei più importanti. Finalità di questo studio è il fatto di comprendere tali elementi e cercare di non corromperli. L’Economista dovrebbe cercare di salvaguardare le istituzioni sociali che si sono sviluppate spontaneamente durante la cooperazione e l’attività umana. Istituzioni sociali come il denaro, le norme giuridiche e la morale. L’Economia ha più a che fare con la cooperazione sociale che non con i numeri. L’imprenditorialità è un processo creativo, non matematico.
Cosa si insegna invece A Scuola di Economia? Conoscenza scientifica. Utile per potenziare la conoscenza imprenditoriale, ma diversa. L’intelligenza di chi lavora è nella capacità di mettere in relazione cose diverse per creare un risultato che oggi non c’è. Se fare l’imprenditore fosse una questione matematica, o scientifica, non avremmo problemi economici e le università sfornerebbero ottimi capitani d’industria. Purtroppo questo non accade. All’università di Economia (non in tutte per fortuna) si studiano i libri sbagliati, ed escono persone immerse nelle loro teorie economiche, avulse da qualsiasi esperienza pratica sul mondo del lavoro e che si lamentano perché l’uomo è irrazionale. No cari signori, l’uomo è solamente imprevedibile!
Da queste diverse posizioni scientifiche nascono anche due approcci politici completamente diversi.
Chi pensa che l’uomo sia imprevedibilmente creativo, tende ad agevolare l’attività umana (in questo caso economica), e si limita a garantire l’integrità di tutti gli elementi che egli utilizza per le proprie finalità, perché nella collaborazione e nello scambio vi sia sempre e naturalmente intrinseco vantaggio reciproco.
Chi pensa che l’uomo sia prevedibilmente irrazionale tende ad intervenire nell’ambito economico modificando le istituzioni sociali che l’uomo si è creato spontaneamente. Facendo quelle che si chiamano “politiche economiche anticicliche”. Stampando per esempio denaro e mettendolo in circolo nei luoghi e nei metodi che più ritengono opportuni. Con tutta l’arroganza di chi pensa di aver capito tutto dall’alto. Meglio di milioni di cittadini che ogni giorno compiono delle scelte economiche.
Ecco perché i primi hanno ampiamente previsto la crisi odierna e i secondi no. Ecco perché gli economisti che ci governano non sapranno risolverla, e nel migliore dei casi riusciranno a posticipare un disastro già annunciato.
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Oggi gli economisti governano il mondo. Sono a capo delle Banche Centrali, e sempre più sono a capo anche delle istituzioni pubbliche e dei governi, come in Italia. La crisi economica è oggi il principale problema, e quindi è naturale che siano chiamati gli “esperti” a risolverla, ma è interessante scoprire che in realtà è proprio colpa loro e dei loro inefficaci modelli matematici se oggi ci troviamo in queste condizioni.
L’Economia è la scienza più inesatta che ci sia, e forse non molti sanno che non tutti gli economisti la pensano allo stesso modo, anzi alcuni sono a poli diametralmente opposti. Ecco perché in campo economico si sente dire tutto e il contrario di tutto e le ricette si faticano a trovare. Ecco il perché.
La maggior parte degli economisti, quelli per intenderci che siedono nelle aule del potere, trattano l’Economia come una scienza naturale, al pari della fisica e della chimica, ed elaborano tutta una serie di complicati modelli matematici per prevedere il futuro economico. Niente di più sbagliato, l’Economia deve essere trattata come una scienza umana che si occupa dell’uomo e della sua vita sociale. La differenza è abissale, perché da un lato si cerca di prevedere il comportamento economico dell’uomo come se l’uomo fosse un robot, che agli stessi stimoli risponde sempre allo stesso modo, dall’altro si studia l’uomo come soggetto creativo unico e irripetibile che coopera con gli altri per raggiungere i propri fini.
Da un lato quindi ci sono modelli matematici da applicare e dall’altra lo studio del metodo con il quale l’uomo opera per realizzare i suoi fini. La differenza è tra costruire a tavolino una città ideale in base a calcoli ingegneristici e invece agevolare lo sviluppo spontaneo di un aggregato urbano: il quartiere Zen di Palermo contro il centro di Lucca. E’ come voler inventare una lingua nuove sulla base di conoscenze scientifiche e invece lasciar nascere spontaneamente un metodo per comunicare: l”Esperanto contro l’Inglese. Queste sono le grandi differenze tra gli economisti “mainstream”, e quelli all’opposizione. Io ovviamente parteggio per la seconda fazione, ahimè minoritaria, ma visti i risultati della prima in grande crescita !
Gli economisti al potere, o consulenti del potere, non hanno previsto la crisi, e questo è un dato di fatto, mentre “gli altri” avevano ampiamente previsto l’imminente sfascio della nostra fittizia economia, e per questo sono anche stati tacciati di catastrofismo, ma perché ? I primi sostengono che è difficile prevedere l’andamento economico perché l’uomo è irrazionale. No ! L’uomo è imprevedibile, non irrazionale e i modelli matematici utilizzati per prevedere il futuro economico non sono sbagliati, sono semplicemente inadatti. Sono utilizzabili per calcolare la portanza di un edificio, il volo di un aereo o l’interesse di un mutuo calcolato con il metodo francese, ma non per stabilire l’attività umana.
Un esempio per comprendere quale sia l’errore di base nel quale si è caduti è quello del PIL, il Prodotto Interno Lordo. E’ un dato che non ci dice assolutamente nulla, eppure è considerato uno dei più importanti. E’ il volume globale delle attività economiche di un dato paese, ma non ci dice se le persone vivono meglio, sono più in salute e se in definitiva sono più felici. Il PIL può crescere perché si va in guerra, o perché si costruiscono case in cui nessuno andrà ad abitare (come in Cina oggi) o perché le persone spendono sempre di più per curarsi perché sono ammalate. I numeri non possono rappresentare lo condizione dell’essere umano!
Molto meglio l’approccio metodologico, quello alternativo, che studia gli elementi che l’uomo utilizza per cooperare, e il denaro, per esempio, è uno dei più importanti. Finalità di questo studio è il fatto di comprendere tali elementi e cercare di non corromperli. L’Economista dovrebbe cercare di salvaguardare le istituzioni sociali che si sono sviluppate spontaneamente durante la cooperazione e l’attività umana. Istituzioni sociali come il denaro, le norme giuridiche e la morale. L’Economia ha più a che fare con la cooperazione sociale che non con i numeri. L’imprenditorialità è un processo creativo, non matematico.
Cosa si insegna invece A Scuola di Economia? Conoscenza scientifica. Utile per potenziare la conoscenza imprenditoriale, ma diversa. L’intelligenza di chi lavora è nella capacità di mettere in relazione cose diverse per creare un risultato che oggi non c’è. Se fare l’imprenditore fosse una questione matematica, o scientifica, non avremmo problemi economici e le università sfornerebbero ottimi capitani d’industria. Purtroppo questo non accade. All’università di Economia (non in tutte per fortuna) si studiano i libri sbagliati, ed escono persone immerse nelle loro teorie economiche, avulse da qualsiasi esperienza pratica sul mondo del lavoro e che si lamentano perché l’uomo è irrazionale. No cari signori, l’uomo è solamente imprevedibile!
Da queste diverse posizioni scientifiche nascono anche due approcci politici completamente diversi.
Chi pensa che l’uomo sia imprevedibilmente creativo, tende ad agevolare l’attività umana (in questo caso economica), e si limita a garantire l’integrità di tutti gli elementi che egli utilizza per le proprie finalità, perché nella collaborazione e nello scambio vi sia sempre e naturalmente intrinseco vantaggio reciproco.
Chi pensa che l’uomo sia prevedibilmente irrazionale tende ad intervenire nell’ambito economico modificando le istituzioni sociali che l’uomo si è creato spontaneamente. Facendo quelle che si chiamano “politiche economiche anticicliche”. Stampando per esempio denaro e mettendolo in circolo nei luoghi e nei metodi che più ritengono opportuni. Con tutta l’arroganza di chi pensa di aver capito tutto dall’alto. Meglio di milioni di cittadini che ogni giorno compiono delle scelte economiche.
Ecco perché i primi hanno ampiamente previsto la crisi odierna e i secondi no. Ecco perché gli economisti che ci governano non sapranno risolverla, e nel migliore dei casi riusciranno a posticipare un disastro già annunciato.
giovedì 31 maggio 2012
Davvero la soluzione è svalutare?
Riporto da usemlab
Davvero la soluzione è svalutare?
Rilancio di seguito uno dei migliori articoli critici che abbia letto di recente sull'argomento svalutazione competitiva. Sempre più voci stanno invocando la svalutazione come soluzione ai problemi dell'eurozona, ed in particolare ai problemi dei PIIGS. Si tratta di un argomento frutto di una profonda ignoranza economica (genuina o dissimulata) che cerca di perpetrare un terribile inganno ai danni della maggior parte della popolazione. L'articolo, di Patrick Barron, pubblicato originariamente sul sito del Mises Institute, è stato tradotto da Francesco Simoncelli per VonMises.it e qua ne offro una versione da me ulteriormente rielaborata al fine di renderlo ancora più chiaro, leggibile e scorrevole. Per chi non lo avesse ancora ordinato, ricordo che oggi è l'ultimo giorno per potere acquistare il libro A Scuola di Economia con la spedizione in omaggio (inserite il coupon "scuolaeconomia" nella procedura di acquisto).
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di Patrick Barron
L’euro è nei guai. Non è certo di una novità. La novità è che certe persone dalle tasche piene siano disposte a pagare degli economisti per avere una soluzione al problema. Lord Wolfson, ad esempio, ha offerto un premio di £250,000 a chi sarà in grado di offrire la migliore via d’uscita dall’Unione Monetaria Europea (EMU). A Marzo sono stati annunciati i cinque candidati finalisti. Il vincitore sarà annunciato nel mese di Giugno.
Nessuno di questi cinque finalisti, Neil Record, Jens Nordvig, Jonathan Tepper, Catherine Dobbs, e Roger Bootle, propone e auspica un ritorno a una moneta sonante; tutti propongono invece l’emissione di nuove valute nazionali a corso forzoso dando per scontato che tale passaggio apporterà dei benefici ai paesi improduttivi oggi in difficoltà.
La teoria sottostante alle loro proposte è che la svalutazione monetaria stimolerà la crescita economica attraverso le esportazioni. Benché essi auspichino nuove riforme economiche, nutrono poca fiducia sul fatto che possano essere realizzate in tempi brevi, pertanto considerano la svalutazione come l’alternativa più rapida.
Funzionerà davvero tutto ciò? Prima di parlarne, vediamo di spendere due parole sul tema della svalutazione.
La Svalutazione nei confronti dell’Oro
Storicamente, la svalutazione di una moneta era riferita al rapporto di cambio con l’oro. La quantità d’oro in circolazione non poteva essere incrementata né per grandi quantità né in tempi molto rapidi. L’oro doveva essere prima estratto, poi coniato, e quindi messo in circolazione. L’intero processo oltre ad essere costoso, richiedeva, come ben sappiamo, un periodo di tempo non indifferente.
In tempi lontani, il sistema più utilizzato per poter svalutare era quello di tosare le monete sostituendole parzialmente con un metallo di base. Con l’introduzione delle banconote, il processo divenne più rapido, facile ed economico: per produrre denaro era sufficiente inserire carta a volontà nelle rotative della zecca facendole girare senza sosta. Al giorno d'oggi qualsiasi ammontare desiderato può essere prodotto ed immesso istantaneamente nel sistema attraverso qualche semplice clic del mouse.
Svalutazioni che meritano particolare menzione, verificatesi ai tempi in cui il denaro, per ammissione degli stessi governi, corrispondeva a un determinata quantità di metallo, sono la svalutazione del franco svizzero nel 1936, descritta da Mises nell’Azione Umana, e la scioccante svalutazione americana del 1934, pari al 69% del valore del dollaro di allora. In questi casi, e in altri simili, la svalutazione era considerata un atto vergognoso, equivaleva ad ammettere un fallimento e un atto di frode: la banca centrale del paese aveva stampato e messo in circolazione più unità monetarie di quelle che avrebbe potuto convertire in oro al cambio prefissato.
La Svalutazione nei confronti delle altre Valute Fiat
Il tipo di svalutazione propugnata dagli economisti odierni è, in un certo senso, differente da quella che si verificava una volta per un particolare aspetto: oggi non esiste merce di riserva — oro o argento — rispetto alla quale la valuta nazionale debba essere svalutata. Quando si parla di svalutazione ci si riferisce pertanto al valore di una particolare divisa in relazione al valore di altre divise sempre a corso forzo. Tuttavia, il meccanismo sottostante la svalutazione è sempre lo stesso: inflazionare l’offerta di denaro, ovvero produrne quantità maggiori rispetto ad altre banche centrali. In altre parole la banca centrale fornisce agli acquirenti stranieri più valuta nazionale con la quale acquistare beni e servizi locali. Questo incremento dell’offerta monetaria troverà le proprie strade attraverso gli scambi economici, portando generalmente ad un aumento dei prezzi. Gli economisti chiamano questo processo “inflazione importata.”
In sostanza, chiunque oggi sostenga le svalutazioni competitive sta solo cercando di convincere i propri connazionali ad accettare come una cosa positiva ciò che una volta era invece considerato un atto ignobile e vergognoso.
Chiarito questo punto, cosa possiamo dire con riguardo all’altra affermazione, quella per cui la svalutazione della propria divisa nazionale rispetto alle altre aiuterebbe effettivamente un paese a diventare più competitivo? Che cosa si è detto in passato su questo argomento?
Le intuizioni di Immanuel Kant, Frederic Bastiat, e Henry Hazlitt
Una politica di svalutazione potrebbe benissimo essere giudicata in base ai criteri dell’imperativo categorico di Immanuel Kant: la svalutazione andrà a beneficio di tutti, in ogni luogo, e in ogni momento? Possiamo affermare, ad esempio, che gli esportatori ne trarranno dei benefici, visto che grazie alla svalutazione riusciranno ad aumentare le loro vendite. Tuttavia la questione, per essere ben esaminata, richiede maggiori riflessioni. A tal proposito consideriamo i preziosi insegnamenti di Frederic Bastiat e di Henry Hazlitt.
L’aumento delle esportazioni è sicuramente un risultato visibile che la maggior parte degli esperti considera un fattore positivo. L’aumento dell'export può essere misurato. Tuttavia questo è solo ciò che si vede. Ma cosa dire con riguardo alle vendite perse dagli importatori? Gli importatori hanno aspettative contrarie a quelle degli esportatori. La valuta avrà un potere d’acquisto inferiore tale per cui le vendite degli importatori saranno colpite dall’aumento dei prezzi che dovranno cercare di scaricare sui propri clienti. Come si possono misurare vendite che non avverranno mai? Questo è quello che non si vede, proprio ciò di cui parla Bastiat.
Ed è solo l’inizio.
Hazlitt ci direbbe di guardare anche agli effetti di lungo termine. Ciò che si vede è che gli esportatori utilizzano per primi il denaro di nuova creazione acquistando i fattori di produzione ai prezzi correnti. I maggiori profitti derivanti dalle maggiori vendite li arricchiranno, perché sono i primi a ricevere il denaro fresco di stampa. Tuttavia, cosa dire di coloro che ottengono i soldi molto più tardi, come i grossisti, o non li ottengono affatto, come i pensionati?
Nel corso del tempo il nuovo denaro immesso in circolazione fa sì che tutti i prezzi salgano, anche i fattori di produzione pagati dell’esportatore. I benefici che egli ha ottenuto grazie alla svalutazione lentamente andranno ad esaurirsi. Le sue vendite presto o tardi inizieranno a calare per tornare ai livelli pre-intervento. A quel punto cosa può fare l’esportatore se non esercitare nuove pressioni sul governo per un altro giro di espansione monetaria?
L’Espansione Monetaria Crea il Ciclo di Boom e Bust
L’aumento generale dei prezzi e gli effetti redistributivi da esso generati costituiscono ancora solo una parte della storia. C’è infatti dell’altro: l’aumento dell’offerta monetaria causerà inevitabilmente il ciclo economico di espansione e crisi (boom and bust). La fase espansiva è stata male interpretata da tutti i finalisti del Premio Wolfson. Essi prendono in considerazione solo le prove storiche degli effetti benefici di breve termine apportati dalla svalutazione. Ad esempio, Jonathan Tepper scrive che “nel mese dell’Agosto 1998 la Russia fece default sul proprio debito sovrano svalutando la propria divisa. Tuttavia non si verificò alcuna catastrofe.” Più avanti scrive, “l’Argentina fu costretta a dichiarare default e a svalutare tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002. Nonostante le fosche previsioni, l’economia argentina si riprese straordinariamente bene.” Tuttavia queste sono solo le apparenze immediate e temporanee della fase di boom causata dall’espansione monetaria. Non solo le nazioni in bancarotta si sono liberate del proprio debito conservando di fatto guadagni illeciti a danno degli investitori stranieri, ma le loro politiche monetarie espansionistiche hanno provocato nuove bolle speculative. Ad oggi, né la Russia né l’Argentina sono riuscite a ricostruire uno sviluppo economico sostenibile.
L’Esportatore come Agente di Trasferimento di Ricchezza
In ultima analisi, dovrebbe essere ben chiaro come la spinta al ribasso del potere d’acquisto della propria valuta non costituisca alcun beneficio di lungo periodo per i paesi che attuano tali politiche. L’unica ragione per cui l’esportatore registra maggiori vendite è che l’acquirente dei beni esportati sta comprando adesso ad un prezzo inferiore. Questo minor prezzo non è il risultato di una produzione più efficiente, ma di una sovvenzione — un trasferimento di ricchezza — da parte di alcune persone che vivono nel paese esportatore verso l’acquirente straniero. A ogni successiva espansione monetaria, la ricchezza viene incanalata verso l’esportatore, i suoi dipendenti e quegli altri soggetti che ricevono il denaro nelle fasi iniziali della svalutazione. Tutti gli altri si ritrovano danneggiati. In effetti, le vendite dell’esportatore sono state sovvenzionate da quei connazionali a cui il nuovo denaro giunge solo nelle fasi successive. L’esportatore costituisce il mezzo, non ben percepito, con cui viene effettuato il trasferimento. La nazione nel suo insieme sta peggio; è meno competitiva, non più competitiva di prima.
Ritardare la Vere Riforme con un’Inutile “Corsa al Ribasso”
Perseguendo la svalutazione come mezzo rapido e semplice per migliorare la competitività nazionale i politici, e gli economisti di professione che li appoggiano, in realtà stanno commettendo una grave ingiustizia verso la maggior parte dei propri concittadini. Un reale vantaggio competitivo può solo scaturire da una riforma liberale delle politiche economiche che remuneri l’operosità e l'imprenditorialità di un popolo, che protegga la proprietà privata, anche quella degli stranieri, dalla tassazione, e che incentivi i risparmi. Così facendo, nel corso del tempo, la quantità di capitale del paese in relazione alla popolazione aumenterà — un aumento di capitale pro capite, come dicono gli economisti — rafforzando la prosperità reale attraverso una maggiore produttività dei lavoratori. Invece di realizzare le dovute riforme economiche, i politici e gli economisti alla loro corte preferiscono la strada più facile della “corsa al ribasso,” per cui ciascun paese cerca di rilanciare le proprie esportazioni con svalutazioni competitive nei confronti di tutti gli altri. Attraverso questa strada la quantità di capitale che si riesce ad accumulare nel paese, anziché aumentare tende lentamente a diminuire, causando un decremento del benessere reale.
L’Azzardo Morale del Welfare State
Non c'è niente che possa impedire a ogni membro dell’Unione monetaria europea di diventare davvero più competitivo. Tutto ciò che serve è la volontà di abbassare i prezzi. Come mezzo comune di scambio, l’Euro sta rivelando semplicemente le strutture economiche non competitive. Allora perché quei paesi che desiderano essere più competitivi si rifiutano di abbassare i propri prezzi? La risposta sta nel Welfare State, nello Stato Sociale. In un’economia di mercato non ostacolata, non esiste disoccupazione strutturale: tutti coloro che desiderano lavorare possono farlo, perché di fatto non c’è mai carenza di lavoro, è solo una questione di prezzo. Tuttavia lo Stato Sociale offre l'illusione di aver rimosso i costi legati all’aver fissato per legge prezzi troppo alti. Si potrebbe dire che il Welfare State sia alla base delle rigidità strutturali di un’economia; tramite le leggi sul lavoro, le licenze, etc. esso ci illude costantemente di aver eliminato parte dei costi che invece emergerebbero e sarebbero ben chiari in una economia di mercato.
La svalutazione cerca di aggirare questo problema di fondo e pertanto non riesce mai a curare la reale mancanza di competitività di un paese.
Conclusione
Svalutare significa espansione monetaria. Il nuovo denaro prodotto deve entrare nell’economia da qualche parte — attraverso i pagamenti agli esportatori, per esempio. L'espansione conseguente viene mal interpretata come un segno del successo della svalutazione. Tuttavia nel più lungo termine essa si accompagnata a effetti deleteri come l’aumento del livello dei prezzi, una iniqua redistribuzione del reddito e l’avvio sistematico di investimenti improduttivi. Siccome nel lungo periodo i prezzi dei fattori di produzione degli esportatori aumenteranno facendo svanire i benefici immediati della svalutazione, si innesca inevitabilmente un meccanismo per cui diventa necessario ricorrere ad ulteriori espansioni monetarie. Tanto più sono i paesi che perseguono queste politiche, tanto maggiori le probabilità di generare una gara disastrosa al ribasso.
La reale soluzione al problema è il ritorno ad una moneta sonante. Solo una moneta rigida è in grado di rivelare le cattive politiche economiche perseguite da un paese costringendolo ad un tenore di vita in linea con le proprie possibilità. Nel contesto di un quadro monetario sano i governi, messi costantemente sotto pressione, sono costretti a liberalizzare le loro economie minimizzando quei fenomeni parassitari distruttori di ricchezza. Le svalutazioni ritardano o addirittura impediscono questo processo demolendo nel tempo la reale competitività del paese.
mercoledì 2 maggio 2012
giovedì 22 marzo 2012
Breve Storia Dell'Economia Austriaca
Riprendo anche qui l'articolo di Usemlab.com
Oramai a pochi giorni dalla pubblicazione del libro delle lezioni di Huerta de Soto, vale la pena rinfrescare bene le idee su cosa sia la Scuola Austriaca di Economia, ripronendo questa bella sintesi di Lew Rockwell, tradotta in italiano per il Ludwig von Mises Italia da Luigi Pirri.
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La storia dell'economia Austriaca comincia nel quindicesimo secolo, quando i seguaci di San Tommaso d’Aquino, scrivendo e insegnando all’Università di Salamanca in Spagna, cercano di spiegare l’intera gamma dell’azione umana e dell’organizzazione sociale. Questi tardo Scolastici notarono l’esistenza di leggi economiche, di inesorabili forze di causa – effetto che operavano proprio come le altre leggi naturali. Per diverse generazioni, essi scoprirono e spiegarono le leggi della domanda e dell’offerta, le cause dell’inflazione, il funzionamento dei tassi di cambio e la natura soggettiva del valore economico – tutte ragioni per cui Joseph Schumpeter li definì come i primi veri economisti.
Gli Scolastici di Salamanca erano sostenitori dei diritti di proprietà e della libertà commerciale e contrattuale. Celebrarono il contributo del mercato alla società, opponendosi ostinatamente all’imposizione fiscale, al controllo dei prezzi e alle regolamentazioni che inibivano l’attività imprenditoriale. Come teologi morali, essi invitarono i governi ad obbedire ad un’etica rigorosa, che si opponeva al furto e all’assassinio. Ed essi vissero seguendo la regola di Ludwig von Mises: il primo compito di un economista è quello di dire ai governi ciò che non possono fare.
Il primo trattato generale sull’economia, Saggio sulla natura del Commercio in generale, fu scritto nel 1730 da Richard Cantillon, un uomo istruitosi secondo la tradizione scolastica. Nato in Irlanda, emigrò poi in Francia. Egli considerava l’economia un’area di ricerca indipendente e spiegò la formazione dei prezzi usando l’”esperimento mentale”, cioè il metodo dell’astrazione; capì il mercato come processo imprenditoriale e aderiva ad una visione Austriaca della creazione di moneta: il denaro entra nell’economia reale gradualmente, distorcendo i prezzi lungo la via.
Cantillon fu seguito da Anne Robert Jacques Turgot, l’aristocratico pro mercato francese e ministro delle finanze durante l’ancien régime. I suoi scritti economici furono pochi ma profondi. Il suo saggio “Valore e moneta” enunciò le origini della moneta e la natura delle scelte economiche: esse riflettono la posizione soggettiva delle preferenze individuali. Turgot risolse il famoso paradosso dell’acqua e del diamante che sconcertò gli economisti successivi, articolò la legge dei rendimenti decrescenti, criticò le leggi sull’usura (un punto d’attrito, questo, con i tardo Scolastici) e favorì un approccio liberale classico alla politica economica, raccomandando l’abolizione di tutti i privilegi garantiti alle industrie connesse col settore pubblico.
Turgot fu il padre intellettuale di una lunga serie di grandi economisti Francesi del diciottesimo e diciannovesimo secolo, in particolare Jean Baptiste Say e Claude – Frédéric Bastiat. Say fu il primo economista ad interrogarsi profondamente sul metodo. Capì che l’economia non riguarda l’accumulazione di informazioni e dati, ma la comprensione di fatti e assunti universali (ad esempio, i bisogni sono illimitati, le risorse sono scarse) e le loro logiche implicazioni.
Say scoprì la teoria della determinazione dei prezzi delle risorse, il ruolo del capitale nella divisione del lavoro e la “Legge di Say”: non può esservi prolungata “sovrapproduzione” o “sottoconsumo” sul libero mercato se ai prezzi è consentito di aggiustarsi in modo naturale; era un difensore del laissez – faire e della rivoluzione industriale, proprio come Bastiat. Da giornalista pro mercato, Bastiat sosteneva anche che i servizi non materiali erano soggetti alle stesse leggi economiche di quelli materiali. In una delle sue numerose allegorie economiche, Bastiat enunciò la “fallacia della finestra rotta”, resa popolare, più tardi, da Henry Hazlitt.
Nonostante la raffinatezza teorica di questa tradizione pre – Austriaca, la scuola Inglese del tardo diciottesimo e inizi del diciannovesimo secolo vinse la sfida, soprattutto per ragioni politiche. Questa tradizione (basata sull’oggettività e sulla teoria del valore – lavoro) portò allo sviluppo della dottrina Marxista dello sfruttamento capitalistico.
La tradizione Britannica dominante ricevette la sua prima vera sfida in molti anni quando i Principi di Economia di Carl Menger furono pubblicati nel 1871. Menger, il fondatore della Scuola Austriaca, riutilizzò l’approccio Scolastico – Francese all’economia, fondandolo su basi più solide.
Insieme agli scritti contemporanei di Leon Walras e Stanley Jevons, Menger diffuse la teoria soggettiva del valore e spiegò chiaramente, per la prima volta, la legge dell’utilità marginale (maggiore è il numero di unità di un bene che un individuo possiede, minore sarà il valore che egli attribuirà ad ogni data unità). Inoltre, Menger spiegò come la moneta nasca in condizioni di libero mercato, nel momento in cui la merce più commerciabile è desiderata non per il consumo, ma per la sua funzione di mezzo di scambio verso altri beni.
Il libro di Menger fu il pilastro della “rivoluzione marginalista” nella storia della scienza economica. Quando Mises disse che il libro “lo aveva reso economista”, non si riferiva solo alla teoria della moneta e dei prezzi di Menger, ma anche al suo approccio alla disciplina. Come i suoi predecessori nella tradizione, Menger era un liberale classico e individualista metodologico che considerava l’economia come scienza della scelta individuale. Le sue Indagini, apparse dodici anni dopo, si opponevano alla Scuola Storia Tedesca, la quale vedeva l’economia come l’accumulazione di informazioni al servizio dello stato.
Come professore di economia all’Università di Vienna, poi tutore del giovane ma sfortunato Principe ereditario Rudolf d’Asburgo, Menger restaurò l’economia come scienza dell’azione umana basata sulla logica deduttiva, preparando la via ai successivi studiosi per contrastare l’ascesa dell’ideologia socialista. Effettivamente, il suo allievo Friedrich von Wieser influenzò tantissimo gli scritti successivi di Friedrich von Hayek. L’opera di Menger rimane un’eccellente introduzione al metodo della scienza economica. Per certi versi, ogni Austriaco può dirsi allievo di Menger.
Il seguace e ammiratore di Menger all’Università di Innsbruck, Eugen von Böhm-Bawerk, si avvalse del pensiero di Menger, riformulandolo e applicandolo ad una serie di nuove problematiche, comprendenti il valore, il prezzo, il capitale e l’interesse. La sua Storia e Critica delle Teorie dell’Interesse, apparsa nel 1884, è un’opera di correzione degli errori della storia economica, nonché un’appassionata difesa dell’idea per cui il tasso di interesse corrisponda non ad una costruzione artificiale e data, ma sia parte integrante del mercato stesso. Esso riflette la “preferenza temporale”, cioè la tendenza delle persone a preferire la soddisfazione di bisogni nel presente piuttosto che nel futuro (una teoria ulteriormente sviluppata e difesa da Frank Fetter).
La Teoria Positiva del Capitale di Böhm-Bawerk dimostrò che il tasso “normale” di profitto è il tasso di interesse. I capitalisti risparmiano, pagano i lavoratori e attendono la vendita del prodotto finale per ricevere il loro profitto. Inoltre, spiegò che il capitale non rappresenta una struttura omogenea, ma un’intricata e diversificata struttura con una dimensione temporale. Un’economia in crescita non è solo conseguenza di un aumento del capitale investito, ma anche di sempre più lunghi processi di produzione.
Böhm-Bawerk ingaggiò una lunga battaglia intellettuale, con i Marxisti, sulla teoria dello sfruttamento capitalistico, rifiutando la dottrina socialista del capitale e dei salari molto prima che i comunisti giungano al potere in Russia. Egli condusse anche un seminario che, più tardi, sarebbe diventato il modello per il seminario Viennese di Mises.
Favorì, inoltre, politiche coerenti con la onnipresente realtà della legge economica. Considerava l’interventismo come un attacco alle forze di mercato, che non poteva avere successo nel lungo periodo. Negli ultimi anni della Monarchia Asburgica, fu tre volte ministro delle finanze, impegnandosi per bilanci in pareggio, moneta sana e gold standard, libero mercato ed eliminazione dei sussidi all’esportazione e altri privilegi monopolistici.
Fu la sua opera che irrobustì ed unificò il metodo economico della Scuola Austriaca, aprendo la via alla grande diffusione nelle zone di lingua inglese. Ma un’area in cui Böhm-Bawerk non sviluppò l’analisi partita da Menger fu quello della moneta, l’intersezione istituzionale tra l’approccio “micro” e quello “macro”. Un giovane Mises, consulente economico alla Camera di Commercio Austriaca, accettò la sfida.
Il risultato della ricerca Misesiana fu Teoria della Moneta e del Credito, pubblicato nel 1912. Enunciò l’applicazione della legge dell’utilità marginale alla moneta, configurando il “teorema regressivo” e rendendo palese come il denaro non solo ha origine dal mercato, ma deve sempre farlo. Attingendo dalla British Currency School, dalla teoria dei tassi di interesse di Knut Wicksell e dalla teoria della struttura della produzione di Böhm-Bawerk, Mises presentò le linee generali della teoria Austriaca del ciclo economico. Un anno dopo, si aggregò alla facoltà dell’Università di Vienna e il seminario Böhm-Bawerk si concentrò per due semestri sul libro di Mises.
La sua carriera si interruppe per quattro anni a causa della Prima Guerra Mondiale. Passò tre anni come ufficiale d’artiglieria e uno come funzionario ufficiale dei servizi segreti. Alla fine della guerra pubblicò Nation, State and Economy (1919), sostenendo le libertà economiche e culturali delle minoranze del disastrato impero e mettendo a punto una teoria sull’economia di guerra. Nel frattempo, la teoria monetaria Misesiana attirò l’attenzione degli Stati Uniti attraverso il lavoro di Benjamin M. Anderson jr., un economista della Chase National Bank (il libro di Mises fu stroncato da John Maynard Keynes, che in seguito ammise di non essere in grado di leggere e comprendere il tedesco).
Nel caos politico post Guerra, il principale teorico dell’allora socialista governo Austriaco fu il Marxista Otto Bauer. Avendo conosciuto Bauer al seminario di Böhm-Bawerk, Mises lo istruì, notte dopo notte, sulla scienza economica, convincendolo ad abbandonare le sue politiche e vedute Bolsceviche. I socialisti Austriaci non perdonarono mai questo a Mises, scatenando, contro di lui, una guerra accademica che non gli permise di ottenere una cattedra retribuita presso l’università.
Imperterrito, Mises si dedicò al problema del socialismo stesso, scrivendo un saggio di grande successo nel 1921, che trasformò nel libro Socialismo nei due anni successivi. Il socialismo non consente proprietà privata o scambi di beni capitali, quindi non c’è modo, per le risorse, di essere allocate nel modo migliore. Una economia pianificata avrebbe condotto, secondo la previsione di Mises, al caos totale e alla fine della stessa civiltà.
Mises sfidò i socialisti a spiegare, in termini economici precisi, come il loro sistema avrebbe funzionato, un compito che i socialisti avevano finora evitato. Il dibattito tra gli Austriaci e i socialisti continuò negli anni successivi e, fino al collasso del socialismo nel 1989, gli studiosi pensarono che il dibattito fosse risolto in favore dei secondi.
Intanto gli argomenti di Mises sul libero mercato attrassero un gruppo di ex socialisti, tra cui Hayek, Wilhelm Roepke e Lionel Robbins. Mises iniziò a tenere un seminario privato nei suoi uffici alla Camera di Commercio; esso fu seguito da Fritz Machlup, Oskar Morgenstern, Gottfried von Haberler, Alfred Schultz, Richard Von Strigl, Eric Voegelin, Paul Rosenstein-Rodan e molti altri intellettuali da tutta Europa.
Oltre a ciò, durante gli anni ’20 e ’30, Mises era impegnato su altri due fronti accademici. Diede il colpo di grazia alla Scuola Storica Tedesca con una serie di saggi in difesa del metodo deduttivo in economia, che egli più tardi ribattezzò “prasseologia” o “logica dell’azione”; fondò anche l’Istituto Austriaco per la Ricerca sul Ciclo Economico, mettendovi Hayek alla guida.
In questi anni, Hayek e Mises produssero molti lavori sul ciclo economico, avvisando dei pericoli dell’espansione creditizia e prevedendo la crisi monetaria incombente. Questo lavoro fu citato dal comitato del Premio Nobel nel 1974, quando Hayek ricevette il prestigioso riconoscimento in economia. Lavorando in Inghilterra e in America, Hayek diventò poi l’avversario principale del Keynesismo con i suoi libri sui tassi di cambio, sulla teoria del capitale e sulla riforma monetaria. Il suo popolare Road to Serfdom (it.: La via della schiavitù), aiutò a rivitalizzare il movimento liberale classico in America dopo il New Deal e la Seconda Guerra Mondiale; elaborò la sua serie Legge, Legislazione e Libertà basandosi sull’approccio tardo Scolastico al diritto, applicandolo per criticare l’egalitarismo e altri miti come la “giustizia sociale”.
Verso la fine degli anni ’30, dopo aver sofferto della depressione mondiale, l’Austria fu minacciata dai Nazisti. Hayek si era già trasferito a Londra nel 1931 su sollecitazione di Mises e, nel 1934, Mises stesso si trasferì a Ginevra per insegnare e scrivere all’International Institute for Graduate Studies, emigrando poi negli Stati Uniti. Conoscendo Mises come nemico giurato del socialnazionalismo, i Nazisti confiscarono gli scritti di Mises nel suo appartamento, nascondendoli durante la guerra. Ironia della sorte, furono proprio le idee di Mises, filtrate attraverso il lavoro di Roepke e la saggezza politica di Erhard, che condussero la Germania postguerra alle riforme economiche che avrebbero aiutato a ricostruire il paese. Successivamente, nel 1992, gli arcivhisti Austriaci ritrovarono gli scritti rubati a Mises in un archivio riaperto a Mosca.
A Ginevra Mises scrisse il suo capolavoro, Nationalokonmie, e, dopo l’arrivo negli Stati Uniti, rivide ed espanse il lavoro ne L’Azione Umana, pubblicato nel 1949. Il suo studente Murray N. Rothbard lo definì “la grande impresa di Mises e uno dei migliori prodotti della mente umana nel nostro secolo. C’è tutta l’economia”. La comparsa di questo lavoro fu il compimento dell’intera storia della Scuola Austriaca e quest’opera rimane il trattato economico che definisce la Scuola. Nonostante questo, non fu ben accolto nel settore, che aveva già ampiamente abbracciato la dottrina Keynesiana.
Sebbene Mises non ottenne mai il posto accademico meritato, egli raccolse studenti intorno a lui all’Università di New York, come aveva fatto a Vienna. Anche prima della sua emigrazione, Henry Hazlitt era diventato il rappresentante di spicco, recensendo i suoi libri nel New York Times e Newsweek, e diffondendo le sue idee in classici come L’economia in una Lezione. Hazlitt apportò anche contributi originali alla Scuola Austriaca. Scrisse una critica riga per riga della Teoria Generale di Keynes, difendendo gli scritti di Say e restituendogli un posto centrale nella teoria macroeconomica Austriaca. Hazlitt seguì l’esempio di intransigente aderenza ai principi Misesiano e come risultato ottenne l’emarginazione dal giornalismo che conta.
Il seminario di Mises di New York continuò fino a due anni prima della sua morte, nel 1973. Durante quegli anni, Rothbard fu suo studente. Effettivamente, il suo Man, Economy and State (1963) fu composto secondo lo schema de L’Azione Umana e in determinate aree – teoria del monopolio, utility e welfare, teoria dello stato – rafforzò e completò le visioni Misesiane. L’approccio di Rothbard alla Scuola Austriaca si inseriva nella linea di pensiero tardo Scolastica, applicando la scienza economica in un contesto di diritti naturali di proprietà. Il risultato fu una piena e completa difesa di un ordine sociale capitalistico e privo di stato, basato sulla proprietà e la libertà di associazione e contrattuale.
Rothbard, dopo questo trattato, si dedicò ad un lavoro di investigazione della grande depressione, alla quale applicò la teoria Austriaca del ciclo economico per spiegare che il crollo del mercato azionario e la crisi economica furono causati da una precedente espansione creditizia bancaria. Successivamente, in una serie di studi sulle politiche del governo, mise a punto la struttura teorica necessaria ad esaminare tutti i tipi di intervento del governo e dello stato nel mercato.
Negli ultimi anni, Mises vide l’inizio della rinascita della Scuola Austriaca, che ha origine dalla pubblicazione di Man, Economy and State e continua fino ai giorni nostri. Fu Rothbard ad impostare coerentemente la Scuola Austriaca e la dottrina liberale classica negli Stati Uniti, in particolare con Conceived in Liberty, la sua serie di quattro volumi dedicata alla storia dell’America coloniale e alla secessione dalla Gran Bretagna. L’unione del giusnaturalismo Rothbardiano e della Scuola Austriaca giunge a compimento nel suo lavoro filosofico, L’etica della libertà; il tutto mentre scriveva una serie di articoli economici accademici raccolti in Logic of Action, pubblicato in due volumi nella serie “Economisti del Secolo” di Edward Elgar.
Queste opere seminali fungono da collegamento principale tra la generazione Mises – Hayek e gli Austriaci ora attivi per espandere la tradizione. In effetti, senza la volontà di Rothbard di sfidare le tendenze intellettuali del suo tempo, il progresso, nella tradizione Austriaca, avrebbe potuto accusare una battuta d’arresto. La sua saggezza e profonda cultura, personalità gioiosa, conoscenza enciclopedica e il suo ottimismo hanno ispirato innumerevoli studenti a rivolgere la loro attenzione alla causa della libertà.
Anche se gli Austriaci sono, oggi, in una posizione migliore rispetto a quella degli anni ’30, Rothbard, come Mises prima di lui, non venne ben trattato dal mondo accademico. Sebbene avesse occupato una cattedra, negli ultimi anni, presso l’Università del Nevada, Las Vegas, non ottenne mai una posizione tale da permettergli di dirigere dissertazioni o tesi. Ciò nonostante, riuscì a reclutare un ampio, attivo ed interdisciplinare seguito per la Scuola Austriaca.
La fondazione del Ludwig Von Mises Institute nel 1982, con l’aiuto di Margit von Mises come pure di Hayek ed Hazlitt, fornì un’ampia gamma di nuove opportunità a Rothbard e alla Scuola Austriaca.
Attraverso un flusso costante di conferenze accademiche, seminari didattici, libri, monografie, newsletter, studi e anche films, Rothbard e il Mises Institute hanno accompagnato la Scuola Austriaca verso l’era post socialista.
Il primo numero della Rivista di Economia Austriaca, diretto da Rothbard, apparve nel 1987, diventando semestrale nel 1991 e trimestrale nel 1998, The Quarterly Journal of Austrian Economics. Le scuole estive del Mises Institute si tengono ogni anno dal 1984. Per molti di questi anni, Rothbard presentò le sue ricerche nel campo della storia del pensiero economico. Queste culminarono nell’opera Una visione Austriaca sulla Storia del Pensiero Economico, due volumi che allargano la storia della disciplina fino a comprendere ed analizzare scritti di secoli addietro.
Grazie alle borse di studio, guide dello studente, bibliografie e conferenze del Mises Institute, la Scuola Austriaca ha permeato, in qualche modo, praticamente ogni dipartimento di economia e scienze sociali in America e in molti paesi esteri. La Conferenza annuale degli Studiosi Austriaci, all’Università di Auburn, attira esperti da tutto il mondo per discutere, dibattere ed applicare l’intera tradizione Austriaca.
L’affascinante storia di questa grande scuola di pensiero, attraverso i suoi alti e bassi, è la storia di come grandi menti possono far progredire la scienza e opporsi al male con creatività e coraggio. Ora la Scuola Austriaca entra nel nuovo millennio come portabandiera intellettuale della società libera. Se può fare questo, è grazie alle eroiche e brillanti menti che costituiscono la storia familiare della Scuola e a quelli che portano avanti questa eredità insieme al Ludwig von Mises Institute.
Tutti gli argomenti trattati qui sono discussi in maggior dettaglio nella corposa letteratura della Scuola austriaca. La Study Guide è un buon inizio. Il catalogo dispone anche di una biblioteca essenziale.
Vedi anche “Capire la Scuola Austriaca” di Henry Hazlitt
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